Parlano due sacerdoti che parteciperanno alla mattinata giubilare in Duomo. Don Carlo Azzimonti: «Tutti abbiamo bisogno di fare esperienza del perdono». Don Mattia Bernasconi: «La penitenza è un sacramento grandioso, grazie al quale posso affidare le mie fragilità a Qualcuno»

di Luisa BOVE

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Per don Carlo Azzimonti, decano alla Cagnola, l’incontro penitenziale in Duomo con i preti della Diocesi del 4 novembre «è un’ottima occasione per vivere insieme una fraternità rinnovata all’interno del presbiterio con il Vescovo. Ma soprattutto è importante per riscoprire il dono del sacramento della riconciliazione che è la via per accedere al perdono del Signore».

Voi preti avete il doppio ruolo, come confessori e come penitenti…
Certo. E questo va tenuto in equilibrio perché tutti abbiamo bisogno di sperimentare la misericordia del Signore e fare esperienza del perdono. Questo può aiutarci a riappropriarci sotto il duplice profilo del sacramento».

La confessione si colloca in un contesto di fede…
La Chiesa vive un momento di fatica oggettiva, perché oggi i fedeli capiscono poco questo sacramento di cui si è perso il senso del peccato. Se tutto va bene ed è solo una questione psicologica, è chiaro che si perde il senso del sacramento. È un gesto di fede, come tutti i sacramenti, in cui si sperimenta il perdono a partire dalla ricomprensione del peccato e della ferita. Una ferita non solo verso il Signore, ma anche verso gli altri.

Lei quindi ci sarà in Duomo?
Certo, ci sarò. E ho invitato tutti i sacerdoti del mio Decanato. Durante un nostro incontro abbiamo affrontato il tema della riconciliazione e sono emerse riflessioni belle e interessanti. Credo che cercheremo tutti di esserci.

«È un’ottima idea della nostra Diocesi e del nostro Arcivescovo per richiamare la necessità, non solo di parlare di misericordia, ma di viverla in prima persona». Commenta così il Giubileo dei presbiteri don Mattia Bernasconi, giovane prete di San Luigi Gonzaga a Milano. «Quando siamo stati a Roma con i diaconi, due anni fa, il Papa ci disse: “Mi raccomando, da preti, confessatevi!”».

La vostra presenza sarà di esempio anche agli altri…
Certo. Ma nella misura in cui non viene vissuto come esempio, ma come cammino reale. Se mi confesso solo per dare l’esempio, snaturo il significato della confessione, quindi vivere realmente la misericordia di Dio è l’unico modo per testimoniarla. Se per me è vero, allora diventa esempio per gli altri.

È un sacramento difficile da far comprendere alla comunità?
Purtroppo è molto sottovalutato. Eppure la potenza del sacramento della penitenza è grandiosa. Io non devo farcela da solo, ma posso affidare le mie fragilità a Qualcuno, non solo per chiedergli di portarle al posto mio, ma di insegnarmi a portarle. È un sacramento grandioso, in stretto legame con quello dell’Eucaristia, perché fare la comunione con una comunità alla quale ho chiesto perdono mi permette di essere aiutato nel cammino anche dagli altri. Oggi c’è individualismo in tutti gli ambiti della nostra società, non solo nella Chiesa, e quindi non piace andare a raccontare i fatti propri a un altro…

C’è ancora molto da educare…
Domenica scora avevo un incontro con i genitori i cui figli si stanno preparando alla prima confessione. Nasceva la domanda: «Perché confessarsi?». Poi magari diciamo di tutto sui social. Allora c’è il bisogno di lanciare un grido, ma viene raccolto in modo poco efficace dalla rete e più “efficace” da un confessore. E soprattutto da Dio.