Riflessi del pellegrinaggio giubilare che dal 4 al 6 ottobre ha portato circa 400 ambrosiani in Vaticano, guidati dal Vicario generale monsignor Mario Delpini

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Dal 4 al 6 ottobre circa 400 fedeli ambrosiani hanno preso parte al pellegrinaggio giubilare in Vaticano, guidato dal Vicario generale monsignor Mario Delpini. Ecco alcuni spunti di riflessione tratti dalle giornate

Passaggio della Porta Santa della Misericordia

Nel pomeriggio di martedì 4 ottobre i pellegrini ambrosiani hanno compiuto il cammino da Castel Sant’Angelo alla Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano. Dopo aver compiuto il percorso si sono radunati presso l’altare di san Giuseppe. Il Vicario generale ha rivolto alcune parole conclusive

«La porta della misericordia è aperta per noi, oggi, condotti qui da una certezza di fede e da un atteggiamento di devozione.
Oggi ci saluta e benedice da Milano l’Arcivescovo card Angelo Scola che portiamo nelle nostre preghiere e nel nostro affetto.
Oggi nel giorno di san Francesco, ci accoglie Papa Francesco, che ci parlerà nell’udienza del mercoledì, domani e che desideriamo tanto vedere da vicino e accompagnare e inco-raggiare con la nostra preghiera.
Perché la misericordia non si riduca a una etichetta, il cui contenuto si logora con l’uso, siamo invitati a condividere due sentimenti, che sono sentimenti che hanno sperimentato i discepoli di Emmaus in quel pomeriggio di Pasqua che offre l’icona biblica per il nostro pellegrinaggio.

La commozione. La misericordia di Dio che raccoglie le nostre tristezze, che perdona i nostri peccati, che ci raggiunge nelle nostre miserie ci commuove, cioè tocca in profondità i nostri sentimenti, come ha toccato i discepoli di Emmaus. La commozione è la risposta all’offerta della misericordia di Dio: ci sentiamo ardere il cuo-re, ci sentiamo trafiggere il cuore, avvertiamo come lo sciogliersi di un groppo, come il dis-solversi di un grigiore cupo e opprimente. Ci commuoviamo. Forse uno dei motivi della resistenza alla conversione che rende inefficaci molte nostre confessioni è l’assenza del dolore dei peccati, è quella presunzione di “essere a posto” che riduce il sacramento della riconciliazione o confessione a una formalità. Non ci la-sciamo toccare il cuore dalla misericordia di Dio perché viviamo nella convinzione che, in fondo, non ne abbiamo bisogno. La superficialità sbrigativa dei nostri esami di coscienza assomiglia più alla ricerca di una autogiustificazione che alla disarmata consegna di sé al giudizio di Dio: la sua Parola ci chiama a santità e ci fa misurare la distanza tra l’altezza della nostra vocazione e la inadeguatezza della nostra risposta. Il dolore dei peccati non è lo scoraggiamento deprimente di chi si sente fallito, ma la commozione trepida di chi percepisce un abbraccio e piange di dolore e di consolazione insieme.

La compassione. La misericordia che avvolge con il suo abbraccio il peccatore pentito lo introduce nei sentimenti e nella mentalità di Gesù e lo rende quindi misericordioso come il Padre. La misericordia non si riduce al gesto generoso che compie le opere di misericordia, ma diventa compassione: quello che fa soffrire il mio fratello fa soffrire anche me. Per sconfiggere la grande tentazione di difendere la propria tranquillità con l’indifferenza che riduce la carità a un gesto di generosità e di elemosina, è provvidenziale la compassione, cioè quell’attitudine a stabilire legami, a condividere situazioni, a trovare il modo di fare un tratto di strada insieme.

Udienza di papa Francesco in Piazza San Pietro

Il gruppo dei pellegrini ambrosiani si è radunato per tempo in piazza san Pietro e ha potuto seguire l’udienza da una posizione privilegiata. Il Papa nella sua catechesi ha ringraziato il Signore e ricordato il recente viaggio nella regione caucasica, in Georgia e Azerbaijan, dopo essere stato in Armenia. Di quel viaggio il Papa ha sottolinea-to la presenza minoritaria della Chiesa Cattolica che vive rapporti costruttivi con la Chiesa ortodossa della Georgia e con la maggioranza islamica dell’Azerbaijan. La dimensione ecumenica e la dimensione interreligiosa si esprime nella collaborazione per la pace e la solidarietà.

Il Papa ha ricordato tra i gruppi presenti anche il pellegrinaggio ambrosiano guidato dal Vicario generale e alla fine dell’udienza ha scambiato qualche parola con il Vicario generale, confermando la sua intenzione di far visita a Milano nella prossima primavera.

Celebrazione in San Gregorio VII (mercoledì 5 ottobre) – Venga il tuo regno

Dall’omelia di monsignor Delpini

Le tentazioni da contrastare. Paolo, ad Antiochia, reagisce al comportamento di Pietro che, per non scontentare i circoncisi, regredisce a una pratica cristiana di compromesso. Forse possiamo riconoscere in questo ”incidente di Antiochia” una sorta di immagine delle tentazioni che continuano a insidiare la vita cristiana e possiamo raccogliere l’invito a contrastare queste tentazioni.
Come possiamo contrastare la tentazione del cristianesimo seduto?
Il cristianesimo seduto è quello dei cristiani stanchi, che avvertono come un giogo pesante quello che dovrebbe essere un giogo leggero, che soffrono quello che dovrebbe esprimere la grazia di essere chiamati alla sequela di Gesù, come fossero adempimenti per doveri che aggiungono al mestiere già di per sé gravoso di vivere.
Il cristianesimo seduto è quello dei cristiani che non sanno più in quale direzione procedere. Le complicazioni della vita, la confusione dei pensieri, il condizionamento dell’“aria che tira” inducono anche i discepoli di Gesù a pensare che non ci sia più una strada da percorre, non ci sia più una meta da raggiungere, non ci sia più una missione da compie-re.
Il cristianesimo seduto è quello dei cristiani che non trovano una motivazione per camminare: l’entusiasmo che forse una volta li aveva trascinati si è logorato con il tempo, la compagnia che forse una volta li ha coinvolti si è dissolta, la relazione personale con il Signore che li aveva persuasi si è fatta un vago sentimento custodito piuttosto come una nostalgia che come una vocazione.
Come possiamo contrastare la tentazione del cristianesimo complessato?
Il cristianesimo complessato è quello dei cristiani che si sono lasciati convincere dal pensiero e dalle parole di molti contemporanei che, in realtà, i cristiani sono sopravvissuti, che, in realtà, il cristianesimo è un anacronismo. La vita di oggi va da un’altra parte. Le ri-sposte che i cristiani offrono non sono pertinenti alla domande che la gente si pone oggi. La gente cerca altrove quello che gli serve per vivere, per affrontare le questioni che urgono dentro, che inquietano. La proposta della verità cristiana appare una sorta di ostina-zione a imporre dogmi incomprensibili e morali impraticabili piuttosto che una buona notizia credibile e una speranza affidabile. Perciò i cristiani sono spesso afoni e muti, quando non sono perentori e suscettibili, in assenza di argomenti persuasivi.
Come possiamo contrastare la tentazione di un cristianesimo indaffarato?
Il cristianesimo indaffarato è quello dei cristiani che sono così presi dalle cose da fare perché si sono sempre fatte, così impegnati per “tenere in piedi” quello che le generazioni passate hanno costruito che sentono un certo disagio di fronte all’invito a sostare per domandarsi “perché?” e “per chi?” si affaticano tanto.
Il cristianesimo indaffarato è quello dei cristiani che sono così pronti e generosi nel rispondere alle richieste e nel lasciarsi disturbare dalle emergenze che presentano la Chiesa come un’opera assistenziale alla quale è spontaneo delegare la cura per coloro di cui nessuno sicura: una sorta di alibi per evitare che nei luoghi di coloro che contano ci si chieda perché ci siano persone di cui nessuno si cura.
Come possiamo contrastare la tentazione di un cristianesimo scoraggiato?
Il cristianesimo scoraggiato è quello delle lamentazioni, quello delle nostalgie, quello dei calcoli e dei confronti. I cristiani scoraggiati sono quelli che dicono: siamo così pochi ed eravamo tanti! siamo sempre quelli! siamo così inadeguati alle necessità del nostro tem-po.

Venga il tuo regno! Il Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 11,1-4) offre una parola decisiva per contrastare le tentazioni di oggi e di sempre. Gesù invita i suoi discepoli a pregare, dicendo: Padre!
La giovinezza della Chiesa non è lo sforzo di adeguarsi ai tempi, non è un impegno a truccarsi per nascondere le rughe e non riconoscere i danni del tempo e i peccati della storia. La giovinezza della Chiesa è il dono dello Spirito che è principio di vita eterna, vita giovane, vita che genera vita. La preghiera è quella grazia di comunione consapevole, docile, grata che ci immerge nella comunione trinitaria e ci rende partecipi della vita di Dio.
Il cristianesimo seduto, il cristianesimo complessato, il cristianesimo indaffarato, il cristianesimo scoraggiato hanno spesso questo in comune: riducono la preghiera a dire delle preghiere, a ripetere delle formule. Pregare è invece quell’immergersi nel roveto ardente, nel fuoco che rende fuoco.
Gesù invita i suoi discepoli a pregare, invocando: venga il tuo regno!
La preghiera che ci rende partecipi dei sentimenti e della mentalità di Cristo ci fa ardere dei suoi desideri, ci smuove da quell’assestarci nelle posizioni acquisite e nella abitudini consolidate che ci fa sedere, scoraggiati e complessati ai margini della storia. La preghiera di Gesù invoca un oltre, sogna un compimento, confida nel ritorno glorioso del Risorto.
La speranza cristiana sembra un patrimonio ignorato, sembra quasi imbarazzante parlare di vita eterna e confessare di desiderare il paradiso. I discepoli di Gesù invece invocano venga il tuo regno, sono ardenti di un desiderio che li rimette in cammino, come i discepoli di Emmaus che corrono a Gerusalemme perché sia annunciata la speranza che sconfig-ge ogni disperazione e rassegnazione.

Celebrazione in San Gregorio VII (giovedì 6 ottobre) – Lo Spirito che avete ricevuto

Dall’omelia di monsignor Delpini

Ecco che cosa vedo: avete ricevuto lo Spirito. Ecco che cosa è certo: che il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono. Ecco di che cosa viviamo, dello Spirito di Dio che è in noi! Ecco perché siamo qui, per-ché siamo convocati dallo Spirito Santo! Ecco perché ci lasciamo trafiggere il cuore dalla contemplazione del Crocifisso, voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cri-sto crocifisso. Ecco il frutto di questo giubileo che noi impariamo a pregare con insistenza perché si rinnovi per noi e per la nostra Chiesa il dono dello Spirito: e volete che il Padre vostro celeste tardi ad ascoltare la vostra preghiera? No! Io già vedo i frutti dello Spirito.
Il frutto dello Spirito è la gratitudine! Infatti lo Spirito non viene dalle opere della legge, non lo abbiamo meritato, non lo abbiamo guadagnato, non lo abbiamo conquistato. Impariamo a rendere grazie, impariamo ad ospitare lo stupore per un dono che trasfigura la nostra vita e la nostra visione del mondo. “Grazie!” è la prima parola del mattino e l’ultima parola della sera. Grazie a Dio, che per il sacrificio del Figlio ci ha donato lo Spirito! La gratitudine è la forma più intelligente di conoscenza, diventa “riconoscenza”: se noi ci la-sciamo ispirare dallo Spirito possiamo forse cominciare a renderci conto di quale grazia sia credere in Gesù, e riconoscere in lui il principio di una vita nuova, della vita di Dio in noi. Se ci lasciamo ispirare dallo Spirito forse possiamo cominciare a renderci con di qua-le grazia sia far parte della Chiesa, la comunità dei discepoli, di questa Chiesa di oggi, di cui tanto spesso vediamo solo quello che ci dispiace e così lo splendore ci appare impolverato, la grandezza dell’opera della Chiesa nella cultura viene disprezzato. Grazie! Grazie per la Chiesa! Ecco che cosa vedo: una Chiesa che celebra l’Eucaristia, che riconosce il suo compimento nella gratitudine.
Il frutto dello Spirito è la gioia! La gioia è una partecipazione alla gloria di Dio, ha una origine misteriosa, è un sentimento che non si può provare per obbedienza a un comando, ma solo per disponibilità ad ospitare lo Spirito di Dio. E come può essere che i cristiani, tempio dello Spirito Santo, siano estranei alla gioia?
La gioia non dipende dalle condizioni della vita. La vita, infatti, è dura, per tutti! In ogni casa e in ogni vita ci sono pesi da portare, malattie da attraversare, difficoltà di rapporti entro la cerchia familiare, problemi di lavoro, travagli psicologici e fisici. Se la gioia dipendesse dalla circostanze, sarebbe un’eccezione nella vita. La presenza dello Spirito in noi, non cambia le circostanze, ma rende possibile il miracolo della gioia. San Francesco ha scritto il cantico delle creature in condizioni fisiche tribolate e insolubili; Santa Madre Teresa di Calcutta ha seminato sorrisi in condizioni di povertà disperate. Noi, se siamo docili allo Spirito che abita in noi possiamo condividere una voglia di cantare, una attitudine a seminare sorrisi, una esultanza spirituale in ogni situazione e condizione ci sia dato di vivere. Ecco che cosa vedo: una Chiesa lieta!
Il frutto dello Spirito è la carità operosa! Coloro che hanno ricevuto misericordia diventano misericordiosi, partecipi dei sentimenti e della mentalità di Gesù, educati al pensiero di Cristo, come ci raccomanda l’Arcivescovo. Così la carità operosa non è la condiscendenza che lascia cadere un’elemosina per liberarsi dall’insistenza indiscreta di un mendicante, ma è la disponibilità a costruire rapporti, a praticare la fraternità, perché si rivolge agli altri uno sguardo che sa vedere come vede il Padre che sta nei cieli. Il Padre trova amabile ogni figlio d’uomo. Chi ha ricevuto lo Spirito guarda a chi gli sta intorno non con il giudizio che distingue tra amici e nemici, tra simpatici e antipatici, tra familiari ed estranei, ma riconoscendo in ciascuno quello che c’è di amabile.
Ecco che cosa vedo: una Chiesa di fratelli e sorelle che si vogliono bene, nel nome del Signore