I cappellani hanno proposto un pellegrinaggio interiore in 4 tappe che prevede la richiesta di perdono e gesti di riparazione verso chi ha sofferto. Hanno aderito 60 persone, ma le richieste crescono
di Luisa BOVE
Detenuti di San Vittore in pellegrinaggio. Sì, avete capito bene. Anche se non si tratta di uno spostamento fisico, ma di un cammino interiore. L’idea, in occasione dell’Anno santo della Misericordia, l’hanno lanciata i cappellani prima di Natale. «La proposta è stata accolta subito con interesse – assicura don Roberto Mozzi -, anche se non compresa immediatamente, perché parlare di pellegrinaggio come percorso interiore non è scontato. Al momento hanno aderito in ogni reparto alcune persone che hanno voglia di mettersi in discussione».
Di che cosa si tratta?
È un pellegrinaggio spirituale, come dovrebbero essere tutti, anche quelli che prevedono un movimento spaziale. Le persone in carcere sono già spinte dalle circostanze a fare un pellegrinaggio interiore per comprendere come mai si trovano lì e cosa vuol dire per la loro vita. È ciò che facciamo abitualmente come pastorale carceraria. Ora però abbiamo proposto in modo esplicito un percorso di rinascita interiore a partire dal Vangelo, dalla situazione di privazione della libertà in cui ognuno si trova.
Come è strutturata la proposta?
È un percorso penitenziale che prevede quattro passaggi. Come ci ha insegnato il cardinale Martini, si parte rendendo grazie, guardando in positivo. Fissare lo sguardo su Gesù è il primo passo: come riferimenti proponiamo la Messa domenicale e le altre occasioni di preghiera comunitaria e personale. Il secondo passaggio è la preparazione a un momento penitenziale globale per lasciarsi abbracciare dalla misericordia in Dio. Anche noi, come le persone detenute, siamo spesso concentrati sul momento presente, che però è l’esito di un percorso. Vogliamo che la misericordia di Dio abbracci tutta la nostra vita fino in fondo, ma dobbiamo rivisitarla e ripercorrerla alla luce del Signore.
E dopo la richiesta di perdono?
Chiedere perdono a Dio è un percorso: inizia prima, giunge alla confessione e procede anche dopo. È un cammino di riconciliazione con se stessi, con gli altri, con la società, con la Chiesa, e prevede alcuni passaggi. Il più immediato è quello di riconciliarsi con le persone coinvolte nel proprio male e costrette a rimanere lontane. Molti lo raccontano: «Io ho fatto del male ad altre persone attraverso il reato che ho commesso, ma i primi che soffrono sono quelli della mia famiglia che ora sono lontani e che ho abbandonato». Chiedere perdono è molto liberatorio, anche se richiede umiliazione, e si concretizzerà secondo la fantasia di ciascuno.
Qual è l’ultimo passaggio?
Dare al perdono un contenuto concreto, per non lasciarlo solo come intenzione. Quindi provare a ricucire la ferita che si è creata col male, proporre un gesto di riparazione. Questo è tutto da inventare, da costruire… A volte la riparazione può essere diretta, altre volte non è possibile e quindi si può pensare a un aiuto indiretto alla società. In tutto questo chiediamo alle persone di non rimanere sole a compiere il percorso.
E chi può accompagnarle?
Lo abbiamo chiamato, forse con supponenza, «angelo custode». È una persona che accompagna, si confronta e diventa come uno specchio. Più che un consigliere o un direttore spirituale è un fratello, una sorella che sta loro accanto e li aiuta a rialzarsi. Sono persone che hanno già un ruolo di accompagnamento spirituale: suore, cappellani, diaconi, seminaristi. I “pellegrini” si sono iscritti compilando una scheda e indicando il loro «angelo custode», che poi li contattata e li accompagna attraverso i colloqui. Vogliamo che ognuno scelga per sé, perché è una delle poche cose che possono fare liberamente: nessuno è obbligato e nessuno trae vantaggi. Tra uomini e donne si sono iscritti in 60 e c’è già chi ha iniziato il cammino. Poi lo proporremo ancora perché a San Vittore c’è un turn-over altissimo.