«È la prima forma di carità che possiamo usare a noi stessi», rileva monsignor Fausto Gilardi, Penitenziere maggiore del Duomo, che sottolinea un afflusso maggiore ai confessionali in Cattedrale: «Tanti i giovani, i professionisti e gli universitari che si accostano al sacramento»
di Annamaria BRACCINI
Porre al centro della vita il sacramento della Riconciliazione che – come dice il Papa nella Bolla di indizione del Giubileo, Misericordiae Vultus – permette di “toccare con mano” la grandezza della misericordia, fonte di pace interiore e condizione della nostra salvezza. È anche un appello alla conversione della mente e del cuore, quello che viene dal Giubileo che si apre. Anno straordinario di grazia, nel quale vedere il volto buono e accogliente del Signore, vivendo con intensità la sua Chiesa “in uscita”.
Ma la gente ha compreso questa scelta nel suo vero significato? Monsignor Fausto Gilardi, da qualche mese Penitenziere maggiore del Duomo, non ha dubbi: «Mi pare che la decisività espressa dalle parole di papa Francesco sia ben chiara, tanto che molte persone si stanno riavvicinando al sacramento della Riconciliazione».
In Duomo si nota un afflusso maggiore ai confessionali?
Sì e vorrei sottolineare che sono tanti i giovani, i professionisti, gli universitari che si confessano in Cattedrale con la volontà di iniziare un nuovo cammino di fede e riscoprendo, così, un rinnovato gusto e senso della propria esistenza.
In un mondo che ha paura, dove si vogliono alzare muri, questa Chiesa dal volto misericordioso è una speranza per costruire vita buona?
Quando il Papa parla di «periferie», credo che si riferisca, oltre la concretezza dei luoghi, alle fragilità, alle sofferenze e ai peccati umani, ossia a quelle che possiamo definire le periferie esistenziali. Il sacramento della Riconciliazione si pone, appunto, come occasione e invito a vivere una misericordia capace di accogliere e di perdonare. Non a caso il Papa, nella sua Bolla, sottolinea che i confessori devono essere «vero segno della misericordia del Padre».
Il “genio” del cristianesimo, come dice spesso il cardinale Scola, è questa possibilità di “rialzarsi”. La Riconciliazione ne è strumento privilegiato?
Possiamo definire la Confessione come il sacramento del “ricominciamento”, quello attraverso il quale l’uomo “consegna” la sua libertà malata al Signore che la guarisce. Così, attraverso l’abbraccio misericordioso del Padre, è sempre possibile “ripartire”, realizzando l’accoglienza anche tra noi.
Per questo Giubileo si indicano anche opere concrete di vicinanza a chi è nel bisogno e nel dolore fisico e morale…
Sarà un modo, come scrive il Papa, «per risvegliare la nostra coscienza assopita davanti al dramma della povertà». Non dimentichiamo che la Riconciliazione non è solo con Dio, ma anche con i fratelli uomini. Questo ci offre la capacità di sentire meglio l’urgenza e la cruciale importanza di quelle opere che si definiscono di misericordia corporale.
La Confessione – che fa del bene anzitutto a livello personale – può essere considerata una di queste opere?
Senz’altro. È la prima forma di carità che possiamo usare a noi stessi.